La cultura d’élite e l’immigrazione
Di ritorno da ArtLab16 a Mantova, da Nova – Padova e da Laboratorio Olimpico a Vicenza ripenso a queste occasioni davvero ghiotte per confrontarsi su temi sensibili: teatro nuovo per nuovi cittadini (e viceversa), festival e innovazione, saperi per l’accoglienza. Relatori ed esperienze diverse, non solo italiane, hanno dato vita a dibattiti vivaci, coinvolgenti. Sorprendente, la cultura non si mangia ma appassiona? Lo stato d’animo che ha pervaso queste giornate lo ha ben espresso Ugo Bacchella, Presidente di Fondazione Fitzcarraldo: “Le sfide della contemporaneità ci impongono di uscire dal consueto, dall’autoreferenziale, per trovare nuove forme di partecipazione alla cultura. Dobbiamo insomma assumerci le nostre responsabilità“.
Mi torna in mente l’appello di Goffredo Fofi al Suq “Occorre che le idee si trasfomino in azioni“. Se questo è vero in generale, tanto più lo è per chi, come noi, lavora per il dialogo e l’integrazione attraverso l’arte, gli spettacoli, la formazione. Come non provare un senso di frustrazione nel constatare che dal 1999, anno di nascita del Suq Festival, ad oggi la mentalità generale – e non certo solo italiana – ha costruito muri invisibili più solidi di quelli alle frontiere?
La cultura e la vita delle persone
Ci accontentiamo di colpevolizzare la crisi economica, la crescita delle diseguaglianze sociali, lo stato di abbandono delle periferie? In realtà l’ambiente culturale ha misurato distanze sempre maggiori dalla vita della maggioranza delle persone. Cosa è mancato? Uno scatto, un’intuizione, l’urgenza di uscire dalla dimensione elitaria per creare circuiti popolari, e porsi alla guida del cambiamento.
Non stupisce che di fronte al tema più attuale – perlomeno nelle cronache, meno nelle terze pagine – l’immigrazione e il dramma dei profughi, la produzione culturale resti ai margini, mostri un analfabetismo preoccupante. Lo registrava Giulia Alonzo al convegno di Vicenza promosso da Laboratorio Olimpico e Rete Critica: “i festival multiculturali sono il 5% dei festival in Italia, eppure ormai siamo di fronte a una multi-comunità“. O anche Valeria Marcolin, dal suo osservatorio di Culture Developpement di Grenoble: “Ma ci stiamo davvero domandando cosa fare per muovere il cambiamento? Ci chiediamo chi è il pubblico a cui ci rivolgiamo?”
Il teatro è solo bianco? E i festival?
Per approfondire l’argomento si può dare un’occhiata alla riflessione di Oliviero Ponte di Pino su ateatro.it Il teatro è solo bianco? Oppure al Report europeo OMC Diversity in dialogue. Qualcosa si è mosso, ma non basta. Anche i festival, che hanno saputo intercettare nuovi pubblici più dei teatri e dei musei, non possono sedersi sugli allori. Andrea Porcheddu di statigenerali.com provoca “I festival a volte paiono rivolgersi a minoranze colte, e il contatto col territorio? C’è poi bisogno di tutti questi festival? I festival devono essere un progetto sociale, un momento di utopia.” Come non essere d’accordo. Bella anche la definizione di Massimo Marino doppiozero.com: “I festival devono andare verso esperienze inesplorate, essere tessiture collettive“.
La non integrazione che costa
Insomma, si impone una autocritica da parte di artisti, creativi, operatori culturali. Ma i decisori? la politica culturale si basa anche sulle scelte di chi investe. Emilio Cabasino del MiBACT cita qualche dato dal documento Action Plan on the integration of third country nationals (European Commission – Brussels), uno fra tutti: “La non integrazione costa di più degli investimenti sull’integrazione“.
E’ chiaro che occorre una politica culturale cha attui strategie di lungo corso, che sappia confrontare modelli e puntare su quelli con i risultati migliori. Esigerli anche. Nel 2007, il progetto Piazze d’Europa aveva segnalato il Suq come “piazza culturale ideale”, in Europa, proprio per l’apertura al nuovo pubblico. Al passo con i tempi, anzi, un po’ prima. E allora perchè si fa così fatica, oggi piu di prima, ad ottenere risposte dagli enti locali. Non dovrebbero essere loro i più attenti al territorio, alla produzione artistica condivisa, capace di accogliere le spinte “dal basso”? Non basta la giustificazione della contrazione delle risorse. In parte è vero, ma la verità è che i grossi investimenti prendono sempre altre strade.
Julia Kristeva al Suq Festival ha affermato che “la cultura ha fallito la sua missione, perchè poteva essere la religione laica dell’Europa”. Come darle torto.
Carla Peirolero