Il 25 aprile di Nina Bardelle: una vita per la Resistenza in quella Certosa di operai e partigiani
Ricordo… i rastrellamenti; la paura delle torture; mio padre antifascista costretto a bere olio di ricino. E poi la lotta in fabbrica, all’Ansaldo di Campi; e quella volta che per salvare la vita, in un sentiero tra i boschi, insieme a un altro ragazzo, ci fingemmo innamorati, riuscendo a sfuggire a due brigate nere. È un inanellarsi di ricordi preziosi l’adolescenza di Nina Bardelle, nome in codice Fioretto. Oggi vive nella sua casa a Rivarolo, ha 94 anni, ma l’energia e la lucidità di una ragazza, quella ragazza, e aspetta che il virus le permetta di tornare fuori: «È una cosa che mai mi sarei aspettata capitasse», ma con la guerra non c’è paragone: «Almeno oggi non ci facciamo del male l’uno con l’altro».
Continua il viaggio di Certosa in viva voce, uno dei progetti di Certosa quartiere condiviso, che dopo aver raccolto le voci di chi a Certosa è cresciuto. Oggi, a raccontarci un’altra faccia di questo quartiere è una partigiana che ha vissuto la Seconda Guerra Mondiale tra Certosa e Rivarolo, tra lotte in fabbrica e staffette in montagna.
Nina aveva solo 17 anni, ed era il 14 giugno del 1944 quando entra a far parte della Sap (Squadra Azione Partigiane). Lei è una delle tante donne che hanno fatto la Resistenza. In prima linea a combattere per la libertà. In un quartiere, Certosa, che in quel periodo pullulava di antifascisti e partigiani. Un impegno che ha mantenuto nel tempo: ha aperto una sezione dell’UDI (Unione Donne Italiane) a Granarolo; è impegnata nel volontariato nella sede dello SPI-CGIL di Certosa e alla Casa della Resistenza di Bolzaneto.
Essere una donna partigiana per lei è stata una scelta quasi scontata: «Mio padre era un perseguitato politico. I fascisti venivano a casa a prelevarlo, lo trattenevano un paio di giorni, e poi lo riportavano. All’inizio ero piccola e non capivo, poi ho compreso quello che gli facevano: lo torturavano, gli davano l’olio di ricino. Crescendo ho capito e ho iniziato a odiare quella gentaglia», ricorda lucida ripercorrendo con la memoria quei momenti che hanno segnato la sua vita e le sue decisioni.
Il suo ingresso nella Resistenza inizia con un corso da infermiera: «Un amica un giorno viene a casa e mi porta in corso Perrone, dove c’era una vecchia costruzione: dentro c’erano tantissime donne e due dottori che insegnavano a fare punture, fasciare braccia, gambe, come assistere un ferito». Le donne durante la Resistenza sono state un aiuto prezioso e fondamentale. «Ho iniziato così e sono stati 18 mesi terribili», ricorda Fioretto che lavorava all’Ansaldo e faceva la staffetta per aiutare i partigiani in montagna, «In fabbrica facevo attività di resistenza, e poi avevamo il compito di portare ai partigiani che si trovavano sulle alture di Genova, viveri, coperte, i medicinali, e contemporaneamente prendevamo e portavamo notizie». Donne staffette, che nel segreto della notte lanciavano per strada locandine, sabotavano cabine telefoniche ed elettriche e che avevano anche il compito di prelevare dalle montagne i partigiani e proteggerli prima di un’azione portandoli nelle proprie case: «Ricordo mio padre che quando tornavo la sera mi chiedeva se doveva preparare un letto in più».
Nina, come tanti altri uomini e donne, quando ha dovuto scegliere da che parte stare non ha avuto dubbi, anche se i rischi erano altissimi:«Un giorno, eravamo in fabbrica, e iniziamo a sentire urla, spari, all’inizio non riuscivamo a capire, poi scoprimmo che avevano fatto un rastrellamento allo stabilimento vicino al nostro. Hanno preso quegli operai, li hanno buttati malamente su vecchi vagoni e trasportarti nei campi di concentramento», un destino che avrebbe potuto colpire anche lei, che era lì a pochi passi da loro. «Ricordo che a un certo punto abbiamo visto svolazzare nell’aria tanti bigliettini, che finivano in strada, nel fiume Polcevera: erano messaggi per le famiglie. Ne abbiamo raccolti il più possibili per farli arrivare a destinazione e far sapere ai familiari cosa fosse successo ai propri cari». Sono momenti di forte tensione, se si veniva catturati: «Le torture che si subivano erano indescrivibili», dice ricordando le pene inflitte ai partigiani nelle stanze della Casa dello studente.
In nome della libertà si è esposta al peggio: «All’Ansaldo avevo il compito di lavare il pavimento della mensa. Sapevo però che sotto quel pavimento c’erano i bossoli pronti per il collaudo. Così attraverso delle fessure che c’erano a terra facevo cadere giù l’acqua sporca, così i bossoli si rovinavano e la consegna ritardava».
La sua è stata una adolescenza sempre sul filo:«Il 25 aprile, giorno della Liberazione, ho scoperto che il mio nome era finito in un biglietto che veniva dalla casa del fascio di Sampiedarena: ero tra le persone da prelevare dallo stabilimento delta dell’Ansaldo e portare alla casa dello studente». La fine della Guerra le ha salvato la vita.
Come se fosse oggi ricorda quel giorno che segnava la fine di un incubo: «Quando c’è stata la liberazione ho visto i partigiani scendere giù dai monti: portavano le bandiere di tutti i partiti. Perché la libertà la volevamo tutti. In montagna non c’erano solo i comunisti, sicuramente erano la maggioranza, ma non i soli», dice guardando a un oggi in cui le divisioni partitiche e politiche, ad alcuni, stanno facendo dimenticare e perdere di vista il valore di quella Resistenza, «che abbiamo combattuto tutti insieme», osserva rinnovando la Memoria.
Testimonianza raccolta da Rosangela Urso
Si ringrazia Lilia Vigo e Enrico D’Agostino per la collaborazione
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